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La violenza sulle donne e le sue forme. Una panoramica sullo stato attuale.


Basta digitare la parola “violenza” in un comune motore di ricerca e trovare immediatamente risultati come “violenza contro le donne” o “violenza sulle donne”: secondo un rapporto del 2013 pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’abuso fisico e sessuale è un problema sanitario che colpisce 1/3 delle donne nel mondo.

Dal rapporto emerge che il 35% delle donne in tutto il mondo ha subìto una qualche forma di violenza nella sua vita e per più del 30% delle donne la più comune è quella inflitta da un partner intimo. Inoltre si dimostra che, a livello mondiale, il 38% delle donne uccise muore per mano dei loro partner e il 42% delle donne che ha subìto violenza fisica o sessuale ha riportato ferite. L’indagine rivela inoltre come il tasso di violenza domestica prevalga soprattutto in Africa con il 45,6%, seguita dal Sud-est asiatico con il 40,2%. Invece in Europa oltre il 25% delle donne sono abusate fisicamente o sessualmente dai partner. A fronte di ciò, l’OMS considera la violenza contro le donne come un problema di salute pubblica che necessita di soluzioni e risposte immediate ed efficaci.

Secondo la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica del 2011 (Convenzione di Istanbul) la violenza contro le donne costituisce una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione di genere, e comprende tutti gli atti di violenza basati sull'appartenenza sessuale che provocano o possono provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che privata.

Secondo tale definizione si possono identificare e distinguere diverse forme di violenza contro le donne: quella inflitta dai partner, le pratiche tradizionali dannose tipiche di alcune culture (come si vedrà di seguito), la tratta di donne, il femminicidio, la violenza e le molestie sessuali, lo stalking, le violenze nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni educative. Tra queste, una delle forme più diffuse e ricorrenti nel mondo è la “violenza domestica”, ovvero tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi/partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima. Ciò che rende comune, nonché in aumento, la violenza domestica è il fatto che spesso le donne sono affettivamente coinvolte ed economicamente dipendenti da coloro che poi ne abusano e questo tipo di violenza si verifica in tutti i paesi, a prescindere dal gruppo sociale, economico, religioso o culturale.

la violenza maschile sulle donne è un fenomeno trasversale a tutte le società e culture;La violenza contro le donne ad oggi rappresenta un problema di interesse internazionale e la violenza nella coppia è sempre più considerata un problema oggetto di attenzione e salute pubblica. Come rilevato dai dati dell’OMS, per questo motivo, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) richiama gli Stati affinché prendano misure appropriate per modificare o abolire leggi, regolamenti, costumi e pratiche che comportano o costituiscono discriminazioni contro le donne e chiede di eliminare tutte quelle pratiche che si basano sull’idea della superiorità o inferiorità di uno dei due sessi oppure su ruoli stereotipati per le donne e per gli uomini che giustificano o intensificano la violenza contro le donne. Ad esempio, secondo la Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne delle Nazioni Unite (1993) rientrano nelle forme di violenza contro le donne le pratiche tradizionali dannose quali la mutilazione e il taglio genitale femminile, l’infanticidio femminile e la selezione sessuale prenatale, il matrimonio precoce e forzato, le violenze legate alla dote, i crimini commessi per “onore”, tipici di alcune culture soprattutto dell’Africa subsahariana e del Sud-est asiatico che risultano le zone del mondo maggiormente colpite dal problema. Non è un caso che in Cina e in India ci siano più uomini che donne: questi Paesi sono noti per le loro pratiche di “femminicidio infantile” poiché le loro politiche di riduzione della natalità, assieme a stereotipi culturali di genere, hanno comportato che le figlie femmine rappresentino un costo (dote) e/o un peso (se non si sposano), che non siano adatte per il lavoro pesante (campi, miniere, etc.) e non permettano la successione del cognome e dei beni di famiglia. Ecografie, amniocentesi e altri esami servono a queste popolazioni per stabilire il destino di un feto: se è femmina, in qualche modo verrà sacrificata, attraverso l’aborto selettivo, cui si ricorre quando i futuri genitori scoprono che il nascituro sarà di sesso femminile, oppure tramite l’infanticidio femminile, quando la famiglia non riesce a sapere in anticipo il sesso del nascituro e il neonato femmina, subito dopo la nascita, viene ucciso o, nella migliore delle ipotesi, abbandonato. Queste forme di violenza intrecciano e coinvolgono diversi aspetti, quali psicologici, sociali, culturali nonché religiosi e ideologici, rappresentando un tema delicato e controverso che si riflette anche al di fuori dei contesti di origine.

Come esposto nel Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne (2017-2020) promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Pari opportunità, occorre adottare forme preventive che mettano a freno, almeno in Italia, la violenza sulle donne migranti, rifugiate e richiedenti asilo in quanto queste, proprio per la loro condizione, sono soggette a molteplici discriminazioni a causa di vari fattori quali le barriere linguistiche, la mancanza di informazioni e conoscenze adeguate, le diversità nella cultura, nella mentalità e nei costumi, la diversa percezione e concezione della donna nella società, il vivere in condizioni precarie, nonché la mancanza di una rete di supporto e integrazione. Non si tralasci inoltre la mancanza di un’opportunità, per queste donne, di un regolare e adeguato contratto lavorativo che si traduce spesso in forme di attività sottopagate, non regolarizzate o illegali che hanno come conseguenza lo sfruttamento e la schiavitù vera e propria (es. prostituzione).

Rispetto al settore “migrazione”, si sottolinea che la rilevanza delle donne nella popolazione immigrata sta crescendo notevolmente e rapidamente: in Italia nel 2016 si contano oltre 180.000 persone di cui 120.000 hanno diritto alla protezione internazionale; tra queste, solo donne e minori costituiscono il 40%. Tra le donne, molte sono quelle che arrivano in Italia dopo aver subìto violenza sessuale o di altro tipo, avvenuta a volte nel loro paese di origine, oppure spesso nei pesi di transito (es. Libia) o anche durante la traversata. Nello specifico, si è rilevato costantemente un aumento delle donne in stato di gravidanza durante l’arrivo in Italia così come un aumento di vittime della tratta, in primis minori.

Ma qual è il quadro di riferimento in Italia rispetto alla violenza sulle donne? Un’istantanea complessiva e articolata sul fenomeno è fornita dai dati Istat dell’indagine sulla sicurezza delle donne condotta nel 2014, di cui è in corso la progettazione di una nuova edizione per il 2018. È risultato che il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro e il tentato stupro. Tra queste, il 13,6% delle donne ha subìto violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner, mentre 24,7% delle donne ha subìto almeno una violenza fisica o sessuale da parte di altri uomini (13,2% da estranei e il 13% da conoscenti). Tra le violenze fisiche rientrano anche le donne spintonate o strattonate (11,5%), prese a schiaffi, calci, pugni e morsi (7,3%) o colpite con oggetti che possono provocare lesioni (6,1%). Meno frequenti sono le forme più gravi come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi.

Per la prima volta l’indagine è stata anche estesa alle donne straniere residenti in Italia le quali, nel complesso, risultano aver subìto violenza fisica o sessuale in misura simile alle italiane (31,3% vs. 31,5%); nel dettaglio la violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% vs. 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% vs. 16,2%). Tuttavia le donne straniere sono molto più soggette a stupri e tentati stupri (7,7% vs. 5,1%) e, rispetto alle italiane, subiscono soprattutto violenze (fisiche o sessuali) da partner o ex partner (20,4% vs. 12,9%) piuttosto che da altri uomini (18,2% vs. 25,3%).

Oltre alla violenza fisica e/o sessuale le donne subiscono anche violenza psicologica ed economica, cioè comportamenti di umiliazione, svalorizzazione, controllo ed intimidazione, nonché di privazione o limitazione nell’accesso alle proprie disponibilità economiche o familiari. Nel 2014 il 26,4% delle donne ha subìto violenza psicologica o economica dal partner attuale e il 46,1% da un ex partner. Sempre nello stesso anno, le violenze psicologiche più gravi (es. minacce, segregazione in casa o pedinamenti) riguardano l’1,2% delle donne in coppia, mentre i figli sono stati oggetto di minaccia e ritorsione per circa lo 0,3%.

Una percentuale non trascurabile di donne ha subìto anche atti persecutori (stalking): si stima che il 21,5% delle donne fra i 16 e i 70 anni abbia subìto stalking da parte di un ex partner nell’arco della vita, ma lo stalking, nel 10,3% dei casi, è subìto anche da parte di altre persone non partner. Complessivamente, sono circa 3 milioni e 466 mila (16,1%) le donne che hanno subìto stalking da parte di un qualsiasi persecutore; i responsabili di stalking sono per lo più di sesso maschile nell’85,9% dei casi rispetto a un 14,1% composto da femmine.

Un’altra indagine sulla sicurezza condotta sempre dall’Istat, nel 2016, ha permesso di stimare il numero delle donne che, nel corso della loro vita e nei tre anni precedenti all’indagine, sono state vittime di molestie e ricatti sessuali in ambito lavorativo. Si comprendono sia le molestie sessuali con contatto fisico (es. tentativi di toccare, accarezzare, baciare contro la volontà) fino al tentativo di utilizzare il corpo della donna come merce di scambio, con la richiesta di prestazioni o rapporti sessuali in cambio della concessione di un posto di lavoro o di un avanzamento di carriera. Sono 1 milione e 404 mila (8,9%) le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subìto molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro; il 7,5% delle donne dichiara di essere stata oggetto di qualche tipo di ricatto sessuale nel corso della loro carriera per ottenere un lavoro, per mantenerlo o per ottenere un avanzamento.

Rispetto alle azioni concrete, conseguenti gli atti di violenza, compiute dalle vittime è possibile rilevare che il 12,3% delle donne ha denunciato le violenze del partner, mentre si riscontra un aumento al 17,5% in caso di violenza sessuale o stupro. Inoltre le donne straniere sembrano essere più propense a denunciare (17%) rispetto alle donne italiane (11,4%), soprattutto quando si tratta di stupro (31% vs. 15%).

A fronte di tutto ciò, la domanda che ci si pone è “cosa poter fare allo stato attuale del fenomeno? Come affrontarlo?”; come affermato e sostenuto nel Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne (2017-2020), di cui si parlava prima, è necessario intervenire e contrastare quella cultura e organizzazione patriarcale di molte società, compresa quella italiana, da cui si origina la violenza di genere diretta contro una donna in quanto tale, poiché la violenza contro le donne è una manifestazione della disparità di potere e dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne, alle discriminazioni da parte degli uomini, impedendo loro la piena emancipazione (Convenzione di Istanbul). Per questo, come enunciato sempre nella Convenzione di Istanbul, è necessario puntare sul processo di empowerment sociale ed economico, poiché solo grazie alla sua promozione si può garantire il benessere generale delle donne, favorendone l’indipendenza, l’autonomia nelle scelte, l’espressione delle proprie potenzialità e capacità, il rispetto del diritto di autodeterminazione e dei diritti umani che spettano loro. Evitare forme di coercizione economica, lavorativa o di vita che comportino la svalutazione, sottomissione, vittimizzazione ed esposizione alla violenza della donna. Bisogna creare le condizioni sociali per le quali le donne possano avere diritto alle stesse opportunità degli uomini, facendo in modo che le loro opinioni siano ascoltate, che le loro conoscenze ed esperienze vengano riconosciute e le loro aspirazioni, bisogni e obiettivi vengano presi in considerazione al fine di partecipare concretamente ai processi decisionali in ambito politico, economico e sociale.


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